Un mondo dalle risorse finite, e con la popolazione in rapido aumento, non può garantire a tutti le stesse condizioni di vita che si sono avute in occidente a partire dal secondo dopoguerra. Consumiamo troppo e troppo in fretta, e la giusta richiesta di benessere di popolazioni numerose ed emergenti come i cinesi e gli indiani accelera una crisi che è globale almeno quanto il mercato che ci governa. Così combattiamo per il controllo di risorse essenziali, dal petrolio all’acqua. Migriamo in massa per sfuggire alla fame. Distruggiamo l’ambiente. E se qualcuno non risolverà il problema della sovrappopolazione usando il suo arsenale atomico rischiamo comunque di farci spazzare via da qualche moderna pestilenza. 
Trenta anni fa l\’argomento era sostanzialmente ignorato: ne parlavano soltanto alcuni demografi che tutti gli altri accusavano di catastrofismo. Oggi, pur essendo oggetto di serissimi dibattiti accademici,  viene negato dai centri di potere della finanza mondiale, che ne vedono gli effetti, ma non sembrano interessati  a indagarne le cause perché sostanzialmente decisi a non mettere in discussione il sistema. Una cecità interessata che stiamo pagando tutti, perché mai come in questi anni nel ricco Occidente c’e’ stata tanta identificazione tra il potere economico e quello politico. Le decisioni prese  in questi centri stanno cambiando il nostro modo di vivere, e purtroppo rischiano di essere, oltre che socialmente inique e penalizzanti per ampi strati della popolazione, inutili.  
Prendiamo il recente invito del governatore della banca centrale europea Draghi ai governi della comunità, e in particolare alla traballante Italia di Renzi, perché rinuncino alla loro sovranità in materia di riforme strutturali. Gli obiettivi ritenuti necessari per competere sul mercato mondiale non sono sicuramente indolori: l’abbattimento del costo del lavoro, lo smantellamento del welfare, la privatizzazione di quel poco che ancora resta da privatizzare dopo le ondate di dismissioni  degli anni Novanta.
La richiesta di Draghi è l’ultima di una lunga serie: sempre più spesso negli ultimi anni le istituzioni economiche sovranazionali hanno occupato gli spazi della politica. Attraverso la banca mondiale, il fondo monetario internazionale e le organizzazioni collegate, tanto potenti quanto ignote al cittadino medio, il mercato si è rafforzato e ha esercitato un potere che non tollera né confini né regole perché presuppone una crescita indiscriminata della produzione: in un mondo che venera il Prodotto Interno Lordo ciò che importa è produrre e consumare, non importa che cosa. E il profitto diventa  l’unico obiettivo degno di essere perseguito, perché rappresenta la misura dell’efficienza e dunque viene ritenuto vantaggioso per la collettività. Tutto il resto, dai diritti dei cittadini al loro benessere, dalla tutela dell’ambiente alla promozione della cultura, può essere sacrificato, e di fatto lo è.  
In Italia abbiamo fantasiosamente battezzato la stagione dei tagli  “spending review”, e l’abbiamo presentata come una azione di riduzione dello spreco, salvo poi scoprire che gli sprechi sono rimasti, mentre sono spariti posti di lavoro e servizi essenziali per le fasce più deboli della popolazione. Siamo peraltro in buona compagnia. L’attacco al welfare riguarda anche paesi con storie molto diverse dalla nostra.  E poiché le cose non accadono per caso, c’è da chiedersi a chi giovi una situazione di questo genere. 
Molti indicatori dimostrano che nei paesi avanzati la crisi ha messo in moto un imponente fenomeno di redistribuzione del reddito a favore di fasce molto ristrette della popolazione abbiente, guarda caso quelle stesse che in tutti i paesi chiedono a gran voce  riforme capaci di rilanciare l’economia. La forza di questi paladini del libero mercato non è soltanto finanziaria. Nel corso degli anni hanno cercato di realizzare quella che Gramsci a suo tempo definì una “egemonia culturale”.  La loro visione del mondo e le loro ricette per un futuro neoliberista, dove soltanto i meritevoli saranno premiati, sono diventate parte del comune sentire, e si stanno diffondendo anche tra coloro che dovrebbero essere in prima fila per combatterle perché contrarie ai propri interessi. Non è detto che si consolidino, ma per sconfiggerle servirebbe almeno la consapevolezza che c’è una battaglia da combattere.