A un anno dalla scomparsa di Gianfranco Bianco, ecco il mio ricordo.
Era il 1984. La redazione piemontese della RAI aveva da poco subito la perdita dolorosa del giornalista sportivo Andrea Boscione. Al suo posto doveva entrare Gianfranco Bianco, che si era formato nella stampa cattolica, aveva lavorato per la Gazzetta del Popolo, e collaborava mandando notizie dalla provincia di Cuneo. Ma nella RAI di quegli anni la lottizzazione aveva le sue leggi, e toccò a me, che arrivavo dall’Unità di Torino, ed ero finito in cassa integrazione per la prima delle tante crisi che avrebbero colpito il giornale.
Così Gianfranco dovette aspettare qualche mese, il tempo necessario perché le caselle delle assunzioni trovassero una sistemazione gradita a tutti, prima di approdare in redazione  insieme a Nino Battaglia, che apparteneva all’area socialista. Gli equilibri erano salvi, e da quel momento, per molti anni, sarebbero stati rispettati.
Tutti e tre eravamo cresciuti in cronaca, consumando la suola delle scarpe tra morti ammazzati, manifestazioni di piazza, incidenti stradali e consigli comunali. Però non avevamo esperienza di radio e di televisione, e il caporedattore di allora, Federico Scianò, ci affidò alle cure di Guido Leoni, che si occupava del Gazzettino del Piemonte, lo storico e molto seguito appuntamento radiofonico di metà giornata.
Guido era un formidabile uomo macchina, non gli sfuggiva nulla e non tollerava le sciatterie. Si avvicinava alle nostre scrivanie con i fogli di carta carbone su cui i dimafonisti della redazione avevano trascritto le notizie dettate al telefono da corrispondenti e informatori. Accanto a ogni notizia c’era il numero di righe che ci aveva assegnato. Dovevano essere proprio quelle, non una di meno, non una di più, e non erano ammessi errori, neppure quelli di battitura, perché secondo Leoni avrebbero potuto creare difficoltà agli annunciatori che le leggevano in onda.
A volte potevamo trasformare quelle notizie in un servizio in voce, registrato prima della messa in onda del Gazzettino o dei giornali radio nazionali della fascia serale, che a metà pomeriggio ci telefonavano per chiedere qualche contributo. Chi afferrava per primo  la cornetta si aggiudicava il pezzo, e Gianfranco era quasi sempre il più veloce.
Avremmo dovuto aspettare oltre un anno prima che Leoni approvasse la rivoluzionaria novità dei giornalisti conduttori. Fui il primo e ancora ricordo l’emozione della diretta, ma il più entusiasta e il più efficace davanti al microfono era Gianfranco, che continuò ad andare in onda anche quando l’età e il grado gli avrebbero consentito di lasciare ad altri l’incombenza di alzarsi alle cinque del mattino per le edizioni radiofoniche che nel frattempo si erano aggiunte.
Il telegiornale di quei tempi andava in onda alle 19.30, con una replica registrata attorno a mezzanotte. Aveva una redazione sua, che comprendeva la vecchia guardia entrata in RAI prima del 1980, quando furono varati i telegiornali regionali, e il gruppo di quelli assunti per l’occasione. Noi eravamo i nuovi venuti, e la radio ci andava stretta.  Come tutti i giovani, eravamo ambiziosi e volevamo farci strada. Non era facile. Leoni ci considerava a sua disposizione e faceva di tutto per impedirci di lavorare per la televisione, inventandosi improbabili servizi radiofonici da realizzare in esterni, con un registratore portatile, quando sospettava che il telegiornale avesse bisogno di noi.  I colleghi più anziani difendevano con le unghie e con i denti il loro ruolo, soprattutto quando arrivavano richieste dai nazionali. Ma in qualche modo, proposta dopo proposta, servizio dopo servizio, trovammo il nostro spazio.
Gianfranco era il più attivo. Non aveva orari, saltava i turni di riposo, rinunciava alle ferie ed era sempre pronto a partire per qualsiasi destinazione. Preferiva ovviamente la provincia di Cuneo, dove non c’era porta che non gli si aprisse. Ma in brevissimo tempo seppe crearsi una fitta rete di rapporti in tutto il Piemonte. Nella sua agenda, accanto alle fonti tradizionali di ogni buon cronista, c’erano i numeri di telefono di tanta gente semplice, incontrata anche soltanto una volta in occasione di una sagra di paese. Aveva una straordinaria capacità di rendersi simpatico e di  entrare in sintonia le persone.
A volte la sua voglia di fare creava tensioni in redazione, dove non tutti ne apprezzavano l’attivismo. Ricordo epiche risse, quando si appropriava di servizi ai quali altri aspiravano. Feci le mie rimostranze perché aveva dato ai GR nazionali una notizia trovata da me, ovviamente senza dirmelo. E lui candidamente mi spiegò che io avevo tante cose importanti di cui occuparmi, compresa mia moglie e le mie figlie, mentre lui, scapolo e solitario,  “aveva soltanto quello”. Non mi convinse, ma lo capii. E lo perdonai, perché alle mie bambine voleva bene davvero, si faceva sempre raccontare dei loro progressi nella scuola e nella vita, e ha continuato a chiedermi notizie anche negli ultimi tempi, quando andavo a trovarlo in ospedale, fiaccato dalla malattia. Non siamo più riusciti a vederci tutti insieme, come qualche volta capitava, e lui affascinava la famiglia con i suoi coloriti racconti.
Ripensare a Gianfranco, a un anno dalla sua morte, vuol dire ripensare alla storia migliore della redazione piemontese della RAI. Non ai nostri difetti, non ai guasti provocati dalle ingerenze della politica, non agli errori di alcune scelte editoriali decise nei palazzi romani, che consideravano e ancora considerano l’informazione locale come un prodotto giornalistico minore, una fastidiosa necessità da assolvere in modo frettoloso e senza investirci troppe risorse.  Lui invece ci credeva, e ha dedicato tutte le sue energie a raccontare il Piemonte ai piemontesi e al resto d’Italia, nei telegiornali e nelle cronache del concerto di Ferragosto e del Palio di Asti, che ha lasciato in eredità a chi è venuto dopo di noi.
Gianfranco parlava il linguaggio della gente comune, senza far pesare le tante letture e la solida cultura che si era costruito al liceo e all’università, dopo aver superato grandi difficoltà per la perdita prematura dei genitori. Aveva gli stessi entusiasmi, gli stessi sentimenti, le stesse preoccupazioni di chi lo ascoltava. In pochi anni, quando fummo entrambi promossi alla conduzione del telegiornale, seppe costruire con gli spettatori un rapporto unico e speciale, diventando il volto del servizio pubblico in Piemonte.  Alcuni di noi erano più controllati, altri avevano voci più impostate, altri erano più eleganti. Ma lui, e soltanto lui,  era “quello del telegiornale”.
Eravamo entrambi piccoli, senza troppi capelli, occhialuti e con la barba. Mi è capitato spesso di essere fermato per la strada da persone che mi scambiavano per Gianfranco. Non credo che sia mai accaduto il contrario.
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