Nelle prime dichiarazioni dopo il voto amministrativo aveva fatto finta di nulla e si era addirittura spinto a cantare vittoria. Adesso perfino Renzi ammette che qualcosa è andato storto, ma fa dire ai suoi amici che si trattava soltanto di un voto locale e rilancia: la sconfitta, se sconfitta c’è stata, è tutta colpa degli altri: di chi non ha voluto seguirlo sulla strada del rinnovamento, di chi non l’ha capito, dei magistrati che complottano contro di lui, dei giornali che lo hanno attaccato sul caso Consip, e via recriminando, come è tipico di ogni buon cacciaballe quando viene colto in castagna. Un copione già visto dopo il disastro referendario, che è molto lontano da una qualsiasi analisi politica e può forse servire per chiamare a raccolta le truppe rimaste fedeli, ma non è sicuramente utile per recuperare consensi e voti. Anzi, rischia di farne perdere molti altri.
Ma Renzi è fatto così. Una persona che ha venduto fumo e illusioni per tutta la sua carriera politica non può cambiare all’improvviso, riconoscere i propri errori, e meno che mai rivedere le scelte fatte per tentare strade nuove. Uno come lui o lo si prende o lo si lascia. E se è umanamente comprensibile che Renzi non abbia la minima intenzione di farsi da parte, diventa davvero difficile capire i motivi che qualche mese fa hanno spinto il suo partito a decidere a larga maggioranza di tenerselo, e di affondare con lui.
I tentativi di spiegazione non sono mancati. Dall’interno del PD si è detto ad esempio che Renzi, nonostante i molti errori e la cialtroneria di alcuni atteggiamenti, resta la migliore carta che il partito può giocare sul piatto elettorale, perché è portatore di un messaggio riconoscibile di rinnovamento e di innovazione. Questo però non spiega perché il presunto portatore di questo messaggio, quasi certamente consigliato dai suoi esperti di comunicazione, abbia pensato bene di non partecipare all’ ultima campagna elettorale del suo partito, limitando al minimo le apparizioni pubbliche e le dichiarazioni di voto. E perché abbiano fatto le stessa scelta anche molte delle persone a lui più vicine come Maria Elena Boschi.
Altri hanno sottolineato le trasformazioni in corso nel PD, sempre meno partito nel senso tradizionale del termine e sempre più macchina di potere dove le idee contano meno delle cordate e degli accordi sottobanco che determinano le carriere dei singoli. In questo quadro – è stato detto – qualche incidente di percorso è accettabile, ma soltanto fino a quando non viene seriamente rimessa in discussione la centralità del partito nel quadro nazionale e locale. La domanda fondamentale è se il PD renziano abbia raggiunto il punto di non ritorno, o stia per farlo. Ma al momento la maggioranza dell’apparato parrebbe convinta che quel punto non sia ancora stato raggiunto, e sarebbe convinta che la gestione renziana del partito sia ancora in grado di garantire gli equilibri. Chi la pensava diversamente, del resto, se ne è già andato.
Una terza e forse più convincente spiegazione guarda alle scelte politiche di fondo del PD in questi ultimi anni. Non tutte disprezzabili, se pensiamo ad esempio al settore dei diritti civili o alla gestione dell’emergenza migratoria. Ma dal più grande partito del centro sinistra italiano non sono mai venute indicazioni credibili per superare la crisi di sistema in cui si dibatte l’Europa, e le scelte fatte, ad esempio sul sistema pensionistico e il Jobs Act, non hanno mai rimesso seriamente in discussione i principi neoliberisti che ci hanno portato al punto in cui siamo. A pagare il prezzo di queste politiche fallimentari sono soprattutto le giovani generazioni, che devono fare i conti con tassi record di disoccupazione, salari bassissimi e un futuro senza pensioni e con un welfare depotenziato. Dunque non ci si può stupire se tutte le analisi indicano una disaffezione diffusa e uno spostamento in massa delle nuove generazioni verso offerte politiche diverse da quella del PD, considerato come un baluardo del vecchio sistema. Una opinione che alcune recenti decisioni del governo Gentiloni sembrano far di tutto per rafforzare. Come giudicare diversamente il vergognoso salvataggio delle banche venete, regalate dal governo a Intesa San Paolo dopo avere scaricato i costi della loro cattiva gestione sulla collettività?
Il paese ha ampiamente dimostrato di non poterne più di Renzi, dei suoi tweet e delle sue battutine sarcastiche. Sarebbe forse disponibile a dare fiducia a un PD che prendesse le distanze dal suo segretario e scegliesse risolutamente un modo nuovo di fare politica, capace di dare risposte concrete ai problemi del paese reale, così lontano da quello immaginario dei talk show. Ma al momento non sembrano esserci dentro il partito persone in grado di guidare la trasformazione. E i contrasti che agitano il variegato universo della sinistra non PD non promettono nulla di buono. Questa, però, è un’altra storia.