Un no per il cambiamento

Adesso, per favore, non santifichiamolo. Renzi ha perso e se ne andrà. Del resto non potrebbe fare diversamente, dopo aver trasformato il referendum in un plebiscito sulla sua persona. 
Il discorso con il quale si è congedato dagli italiani è un esempio perfetto del suo modo di fare politica, che ha sempre privilegiato l’apparenza sulla sostanza. Con la moglie al seguito e il tricolore alle spalle Renzi ha recitato benissimo la parte dello statista tradito degli elettori, che non hanno capito le sue buone intenzioni perché ha avuto l’unica colpa di non averle ben spiegate. Uno statista neppure sfiorato dal sospetto che queste buone intenzioni, agli occhi della maggioranza degli italiani, non fossero poi così buone. La riforma costituzionale è stata vista da molti come l’ultima di una lunga serie di forzature, iniziata con il Jobs Act e proseguita con la buona scuola, dove il confronto ha ceduto il passo all’arroganza e le parti sociali sono state considerate  nemici da seppellire sotto una pioggia irridente di tweet. Non poteva durare e non è durata, nonostante l’appoggio compiacente dei media e i continui rilanci a suon di promesse impossibili da mantenere.
Prima o poi anche i più fedeli sostenitori di Renzi, superato lo choc della sconfitta, converranno sul fatto che il crollo verticale della sua popolarità non può essere attribuito soltanto alla perfidia dei tanti nemici interni ed esterni. In queste ore si sta tentando di far passare l’idea di uno zoccolo duro di elettori coesi e responsabili sconfitto da una armata Brancaleone  di scontenti, mossi dalla volontà di bloccare ogni riforma. Ma le prime analisi sui flussi elettorali raccontano un’altra storia. Ad esempio, ci dicono che il no sarebbe stato particolarmente forte tra i giovani, i disoccupati, le persone con i redditi più bassi e quelle con un alto livello di istruzione: categorie sicuramente non omogenee, ma con buoni motivi di scontento nei confronti dell’operato del governo. Il sì, al contrario, avrebbe raccolto i maggiori consensi tra gli anziani, i redditi alti e le persone con un basso livello di istruzione. Anche in questo caso categorie non omogenee, ma con meno motivi di scontento per le condizioni del paese e portate comunque a privilegiare la stabilità.  Dunque i veri conservatori sarebbero stati i sostenitori del sì, mentre i sostenitori del no, difendendo la costituzione attuale, avrebbero in realtà espresso la loro volontà  di cambiare una situazione ritenuta non soddisfacente, e imputata a torto o a ragione ai mille giorni di Renzi alla presidenza del consiglio.
Vedremo nelle prossime settimane se arriveranno ulteriori dati per confermare queste analisi. Fin d’ora comunque si può dire che la questione non è destinata a restare chiusa in un ristretto ambito accademico. Capire quello che è successo davvero è essenziale per tutti. Per i partiti, se vorranno provare a colmare il divario che sempre più li separa dal sentire degli italiani. Per il successore di Renzi, a prescindere dalla maggioranza che lo sosterrà. E anche per lo stesso Renzi, se, come è facile immaginare, sta già pensando alla rivincita.
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Una difficile convivenza

Ventitré anni sono lunghi. In politica lunghissimi. Eppure tanto è durato il governo del centro sinistra a Torino. Due mandati per Valentino Castellani, due per Sergio Chiamparino, uno per Piero Fassino. Poi è arrivata lei, Chiara Appendino, che ha sconfitto al ballottaggio Fassino nelle elezioni di giugno, raccogliendo il consenso di oltre 200 mila torinesi.


Sulle cause di questo risultato, inatteso da molti, sono stati versati fiumi di parole e di inchiostro, e non è il caso di tornare. Di quello che accadrà è forse troppo presto per parlare senza cadere nel trionfalismo dei vincitori o nel catastrofismo degli sconfitti. Ma il suo significato, a sei mesi dal voto, è chiaro: si è chiusa un’epoca storica, e se ne è aperta un’altra. Perché, se anche la giunta cinque stelle cadesse domani, nulla potrà più essere come prima.

L’aria che si respira a Torino è cambiata. Chi è abbastanza vecchio ricorderà sensazioni analoghe nel 1975, con la storica vittoria delle sinistre e il varo delle giunte rosse guidate da Diego Novelli. Poi nel 1985, che segnò la traumatica fine di quella esperienza e l’inizio di otto anni incerti, con quattro diversi sindaci riconducibili al pentapartito – Giorgio Cardetti, Maria Magnani Noya, Valerio Zanone e Giovanna Cattaneo – e un commissario di governo. E infine nel 1993, quando nel ballottaggio da poco introdotto si confrontarono due diverse concezioni della sinistra e Castellani sconfisse Novelli, anche in quel caso con sorpresa di molti.

Senza entrare in valutazioni di merito, queste tre date hanno in comune il fatto di aver avviato processi di rinnovamento che sono andati ben oltre gli eletti e hanno coinvolto la macchina comunale, gli enti strumentali e anche molte altre realtà formalmente autonome, ma non in condizione di ignorare la mutata realtà. Nuove esigenze sono venute alla ribalta, nuovi equilibri sono nati, nuove alleanze si sono strette.  Qualcuno ne ha tratto vantaggio, qualche altro è stato penalizzato, sempre però nel rispetto delle forme e senza arrivare agli eccessi dello spoils-system di stampo anglosassone.

Il 2016 è un’altra di queste date, anche se molti, soprattutto tra gli ex amministratori scottati dall’esito del voto, non sembrano essersene accorti e preferiscono pensare che la sconfitta sia stata un incidente di percorso, esorcizzabile attaccando a testa bassa le manchevolezze vere o presunte dei vincitori. Sarebbe ingeneroso negare  i meriti del centrosinistra che ha governato in anni difficili, segnati dal progressivo disimpegno della Fiat e dalla crisi dell’economia. Sarebbe miope non riconoscere quanto è stato fatto, grazie anche ai finanziamenti arrivati con le Olimpiadi, per accompagnare le trasformazioni della città senza penalizzare la sua coesione sociale. Ma al tempo stesso non bisogna dimenticare che la continuità di governo in questi ventitré anni è stata anche continuità di persone, e che molti si sono sentiti esclusi da un sistema di relazioni e di potere dove era possibile entrare soltanto per cooptazione, e a volte senza merito.

E’ stato detto che nel ballottaggio di giugno ha vinto la protesta, perché sul nome di Appendino si sarebbero coalizzati i voti di tutti gli sconfitti del primo turno. In realtà sarebbe stato più giusto dire i voti di tutti quelli che a torto o a ragione si sono sentiti dimenticati o penalizzati dalle politiche di chi ha governato. Interi quartieri, soprattutto in periferia, ma anche intellettuali, funzionari, imprenditori. E i numeri della vittoria pentastellata dimostrano che erano davvero tanti.

Il centrosinistra sconfitto dovrebbe riflettere su questo. A  Appendino  spetta invece l’onere di governare e di  realizzare i suoi programmi.  Che possono anche non piacere, ma ci sono, anche se sfuggono all’attenzione di chi è abituato alle vecchie forme di comunicazione della politica:  basta una rapida ricognizione sul web – i cinque stelle non si fidano di giornali e televisioni – per rendersene conto. Quello che manca al nuovo sindaco è la squadra capace di realizzarli. In giunta e in consiglio siedono persone giovani, inesperte, non particolarmente coese e in qualche caso modeste, mentre il tessuto sociale della città resta quello disegnato dal centro sinistra in ventitré anni di governo.   

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Si prospetta una convivenza non facile, ma necessaria per il bene di tutti. Vedremo nei prossimi mesi  quel che accadrà.

Opposizione cercasi

Sono di sinistra, o almeno penso di esserlo. E sono di sinistra anche molti dei miei contatti su Facebook, che, come me, alle foto dei gattini preferiscono i commenti su quel che accede dentro e fuori i patrii confini. Ultimamente vanno per la maggiore le elezioni americane, il referendum e l’olio di palma. Ma hanno ampio spazio anche la storia, la filosofia, l’economia e la politica, partendo da Renzi fino ad arrivare a Chiara Appendino, che la maggior parte dei miei contatti vede come il fumo negli occhi.
La scarsa simpatia della sinistra nei confronti del neo sindaco pentastellato è comprensibile, perché la sua vittoria, da molti non prevista,  ha interrotto una esperienza di governo cittadino durata oltre vent’anni, con risultati tutto sommato positivi. Meno comprensibile è il tenore degli attacchi che le vengono rivolti, a cominciare dall’accusa di essere succube di un funzionario comunale assurto al delicato incarico di capo del gabinetto. La qual cosa, se anche fosse vera, non è di per sé un  motivo sufficiente per sfiduciare un sindaco, che ha il diritto di decidere dopo essersi consultato con chi gli pare.  In passato ne abbiamo avuto alcuni che prendevano gli ordini direttamente dagli uffici di una grande azienda, senza scandalo dei pochi che sapevano e dei molti che lo ignoravano perché i giornali cittadini tacevano e il web ancora non esisteva.
In questi giorni nel mirino dei cecchini della rete finiscono non soltanto le decisioni della giunta pentastellata, ma anche le intenzioni vere o presunte, le apparizioni pubbliche, le battute colte al volo in strada, e perfino i numeri  delle delibere approvate e di quelle non presentate, di cui nessuno a memoria d’uomo si era mai preoccupato.  Addirittura nascono siti e pagine Facebook pseudo satiriche che hanno forse qualche ragione quando descrivono  l’attuale maggioranza come un’accolita di dilettanti allo sbaraglio, ma sicuramente hanno torto quando dimenticano che il centrosinistra ha perso le elezioni non per un accidente della storia, ma per gli errori che ha commesso.
Non vorrei essere frainteso. La satira è e deve essere  libera. Ma vorrei esortare i miei amici della sinistra, che hanno giustamente criticato Grillo per avere costruito un movimento politico sulle battute ad effetto, a non seguirlo sulla stessa strada. Invece, ogni giorno vedo che gli assessori della ex giunta e i consiglieri della ex maggioranza si esibiscono in sgangherati attacchi ai presunti errori del governo cittadino, e lo fanno senza mai entrare nel merito, con una spocchia almeno pari alla pochezza delle argomentazioni,.
Un esempio recente, la  polemica sulla mostra di Manet che Milano ci avrebbe scippato perché la sconfitta di Fassino avrebbe reciso i solidi legami tra Torino e la grande cultura europea. Che dell’arrivo dei Manet si fosse parlato un anno  fa con Guy Cogeval, presidente del Museo d’Orsay, è sicuramente vero. Ma è anche vero che non era stata presa alcuna decisione ufficiale, mentre erano ben noti i dubbi di Skira, l’editore che avrebbe dovuto allestire la mostra, sui livello degli incassi che la piazza torinese gli avrebbe garantito. Un argomento che con il colore delle amministrazioni ha poco a che fare, e forse proprio per questo  è stato quasi completamente ignorato da molti commentatori. 
I cecchini del web hanno il dito sul grilletto anche per la vicenda del Torino Jazz Festival. Appendino ha detto di non volerlo più finanziare, e all’improvviso il Festival si è trasformato in un appuntamento culturale di straordinaria importanza, da difendere con le unghie e con i denti dall’attacco dei barbari. Ma fino a qualche mese fa  moltissimi, anche a sinistra,  criticavano il cartellone della manifestazione e le infelici scelte di calendario, e si lamentavano per i ricchi finanziamenti e gli scarsi risultati ottenuti. Naturalmente sottovoce, per non dispiacere all’amministrazione in carica. 
Per concludere. E’ sicuramente difficile capire che cosa passi davvero per la testa del sindaco Appendino e della sua giunta, anche se una maggiore attenzione a quello  che è stato detto in campagna elettorale qualche indicazione in più potrebbe darla. In fondo con quel programma i pentastellati hanno stravinto le elezioni, e dunque c’e’ da supporre che una consistente parte dei torinesi sia d’accordo con loro.
Al momento, però, mi sembra più difficile capire che cosa abbia per la testa il centro sinistra. E questo mi dispiace, perché, come dicevo agli inizi, sono di sinistra. O almeno penso di esserlo.

Il furbetto dello spottino

La forsennata campagna elettorale pro Renzi  portata avanti sulle reti televisive pubbliche in occasione delle ultime elezioni amministrative ha avuto esiti per lui disastrosi. Dunque è lecito nutrire qualche dubbio sul fatto che gli spot referendari in onda in questi giorni sulle stesse reti  siano in grado di influenzare l’esito del voto. La vittoria del si o del no dipenderà dagli umori di un paese stanco e sfibrato, che non crede più alle promesse dei partiti e si mobilita sulla base di sentimenti irrazionali, simpatie, antipatie e interessi particolari a volte inconfessabili.  Pochi sono attenti al merito delle proposte in campo, anche perché pochi sono in grado di capirle.  Come spiegava uno studio dell’autorevole linguista Tullio De Mauro pubblicato qualche anno fa, ma sempre attuale,  meno di un terzo degli italiani possiede i livelli di comprensione della lingua indispensabili per orientarsi nella vita di una società moderna. E la riforma proposta da Renzi, con tutti gli arzigogoli tra commi e articoli proposti dalle sue formulazioni, sembra fatta apposta per approfondire il solco tra i cittadini e le istituzioni.
Ciò detto, condivido l’irritazione del fronte del No per il comportamento del governo e dei vertici della  televisione pubblica che da questo governo sono stati nominati, e gli rispondono in modo diretto come mai era accaduto in precedenza. La semplificazione del quesito referendario e il modo con cui esso viene presentato negli spot  sono perfettamente in linea con un modo di amministrare la cosa pubblica che maschera i suoi pessimi contenuti con le pratiche retoriche tipiche del peggiore intrattenimento. Abbiamo avuto in passato i furbetti del quartierino, oggi c’è il furbetto dello spottino.
A partire dagli 80 euro in busta paga, e a seguire con le promesse non mantenute, le smentite del giorno dopo, i tweet irridenti, gli annunci mirabolanti di grandi opere utili soltanto alla contingenza del momento,  Renzi ha dimostrato di non avere sostanza. E’ abile e spregiudicato, come tutti i cacciaballe che prosperano in questo paese. E forse è anche pericoloso, perché, come tutti i cacciaballe, approfitta della debolezza dei suoi avversari  per ricavarne vantaggi per sé e per i suoi amici. Ma sicuramente non è l’uomo giusto per aiutare l’Italia a uscire da una crisi di dimensioni drammatiche, che richiederebbe una ampia visione strategica e scelte attentamente meditate.
Figlio della televisione – è appena il caso di ricordare che lui e il leader della Lega Salvini hanno avuto i primi momenti di notorietà come concorrenti di quiz – Renzi è destinato prima o poi a cadere vittima dei suoi stessi comportamenti. Qualche avvisaglia si è avuta con il fallimento della riforma delle province, che dovevano essere abolite e sono diventate il mostro giuridico delle città metropolitane. Sull’Italicum stiamo assistendo in questi giorni ai penosi balbettii di un partito che ha scoperto di avere fortemente voluto una  legge elettorale fatta su misura per far vincere i suoi avversari. E che dire dei tira e molla sull’Europa, criticata sulle pagine dei giornali per guadagnare qualche punto nei sondaggi, ma supinamente accettata quando a Bruxelles arriva il momento delle decisioni vere?
Il referendum arriva in una fase intermedia della parabola renziana. Nel paese che sta toccando con mano le sue debolezze cresce l’insofferenza e tutti i sondaggi dicono che se si votasse oggi sarebbe sconfitto, ma l’esito di una consultazione che prevede una alternativa secca su un quesito oscuro non è prevedibile.   
L’azzardo piace al nostro presidente del consiglio, e a suo tempo Renzi disse che nel referendum si giocava tutto. Poi, come al solito, sono arrivate le smentite e le precisazioni. Ma il no sulla scheda resta a mio avviso il miglior modo per ricordargli la promessa iniziale.

Grazie, Ken

Non accade spesso di uscire dal cinema con gli occhi lucidi. A me è successo dopo aver visto “Io, Daniel Blake” di Ken Loach,  e non ero il solo. Il film è stato giustamente premiato con la Palma d’Oro a Cannes, e non c’e’ molto da aggiungere a quanto è stato scritto sulla sobria e efficace regia, sulla limpida sceneggiatura, sui magnifici attori che Loach ha scoperto, come fa spesso, sui palcoscenici del teatro minore. Ma vorrei provare a spiegare perché avevo gli  occhi lucidi.
Daniel Blake è un semplice carpentiere. Ha perso la moglie, pazza, dopo averla a lungo assistita. Non può lavorare a causa di un infarto. In seguito a un  allucinante colloquio che non vediamo, ma ascoltiamo mentre scorrono i titoli di testa, gli viene negato il sussidio e ha inizio la sua odissea nel sistema assistenziale riformato, come dice un personaggio minore,  “dagli stronzetti snob di Eton che governano L’Inghilterra”. Nelle sue peregrinazioni tra un ufficio e l’altro, alle prese con una burocrazia incapace di umanità e computer che non sa usare, incontra Katie con i suoi due bambini. Insieme combatteranno la loro battaglia per sopravvivere. Affronteranno  esperienze umilianti – indimenticabile la scena nella banca degli alimenti, con Katie affamata  che apre di nascosto una scatoletta e la mangia in piedi –  e vivranno momenti intensi di solidarietà e affetto. Qualcuno li aiuterà, altri li respingeranno, e lui sarà anche protagonista di un gesto ribelle, presto rientrato per l’intervento della polizia, ma gioiosamente accolto dai passanti.
La dignità, anche sull’orlo del precipizio, è l’unica cosa che il sistema non riuscirà a portare via a Daniel Blake. Una dignità che nasce dalla serena consapevolezza di essere un cittadino del suo paese, che ha dei diritti perché per tutta la vita ha scrupolosamente assolto ai suoi doveri. 
E’ un uomo giusto, Daniel Blake, che costruisce una libreria per libri che ancora non ci sono, ma simboleggiano la speranza di Katie in una vita migliore. E’ una donna giusta Katie, che piange quando si rompe una piastrella del bagno che sta pulendo perché sua figlia possa finalmente lavarsi.   Ed è per questo che le ingiustizie piccole e grandi di cui sono vittime fanno male e diventano quasi insopportabili. Come la voce registrata che per lunghi minuti, in una delle scene iniziali, invita Daniel ad attendere in linea per parlare con un operatore dei servizi sociali.

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“Io, Daniel Blake” è il film militante di un regista figlio di operai che ha dedicato tutta la sua vita a raccontare storie di proletari, diseredati e ribelli. Ma del film militante non ha i difetti. Non è a tesi, non è didascalico, non è enfatico. E’ soltanto, e semplicemente, un’opera straordinaria, un pugno nello stomaco sferrato con delicatezza, come soltanto i grandi registi sanno fare. Grazie Ken.

A proposito di Fuocoammare

Tra vent’anni, quando tutti avranno dimenticato i film di Paolo Sorrentino, Fuocoammare sarà ancora lì, a ricordare al mondo quel che è accaduto e forse ancora accadrà nel nostro mare di casa. Proprio non ho capito le proteste del più noioso dei nostri registi per la candidatura del film di Gianfranco Rosi agli Oscar come migliore film straniero. Anzi, le ho capite benissimo, e non mi sono piaciute.
Dice Sorrentino che Fuocoammare è un documentario, e dunque sarebbe stato meglio farlo concorrere in quella categoria. Che si esca sconvolti dalla sala dopo averlo visto, che alcune delle scene restino indelebili nella memoria, che la sua uscita abbia contribuito più di migliaia di articoli e servizi televisivi a far capire a una opinione pubblica distratta l’entità di una delle grandi tragedie del nostro tempo, a Sorrentino non importa. Gli importa invece che le immagini non siano sufficientemente levigate, che la musica sia quella di ambiente, che manchi una sceneggiatura sofisticata e che i dialoghi non siano sufficientemente rarefatti. Tutti ingredienti che lui, Sorrentino, sparge a piene mani nelle sue opere, avendo sempre l’accortezza di giovarsi di attori di gran nome e di sicura presa sul botteghino.
Rosi, con la sua telecamera a mano e i suoi attori non professionisti, seguiti per quasi un anno nella loro vita di tutti i giorni sull’isola di Lampedusa, ha scelto una strada non migliore e non peggiore, ma semplicemente diversa. Negare che la scena del dottor Bartolo davanti al computer dove scorrono le immagini delle vittime dei naufragi abbia tutte le caratteristiche di un grande momento cinematografico è qualcosa di più e di peggio di una sottovalutazione. E’ una incapacità di capire che si possono fare film straordinari con pochi mezzi e con la sola forza delle idee.
Ridurre le strazianti e delicate immagini girate dentro un barcone carico di morti al rango di un documentario, come se potessero essere paragonate a un qualsiasi prodotto di National Geographic, è cosa che a mio avviso grida vendetta per chiunque ami il cinema.
Vedremo tra pochi mesi che cosa ne penserà la giuria degli Oscar. Ma è comunque consolante pensare che più o meno allo stesso modo hanno pensato i giurati del festival di Berlino, che a Fuocoammare hanno assegnato l’Orso d’Oro  per il miglior film. Film, Sorrentino. Non documentario.

Lasciare

Lasciare non è facile, anche quando lo si fa per  scelta e non per obbligo. E se la ragione ti dice che il momento è arrivato, ci sono i ricordi le amicizie e le soddisfazioni professionali, di gran lunga più numerose delle delusioni, a ricordarti quanto siano stati importanti e belli trentatré anni di lavoro in RAI.

Sono stato fortunato. Prima  con il lavoro nel giornale radio e nel telegiornale regionale, di cui sono stato per molti anni uno dei volti più noti,  poi con il passaggio alle produzioni nazionali della testata, dopo una promozione che nelle logiche spartitorie dell’azienda  era anche un allontanamento da quel che si riteneva fosse davvero importante, la gestione degli spazi informativi regionali a vantaggio della politica e degli altri  poteri forti cittadini. 
Invece è stata una opportunità. Pochi giornalisti della RAI hanno avuto la possibilità di dirigere per quasi vent’anni una trasmissione nazionale di grande successo come il telegiornale scientifico TGR Leonardo, e di farlo in piena libertà di scelta e di errore, avendo come unico vincolo il confronto con una redazione che condivideva la stessa idea di servizio pubblico e le stesse passioni. Un modello che ho replicato con TGR Montagne, un settimanale nazionale poi chiuso da una discutibile scelta aziendale,  e, nell’ultima stagione, anche con TGR Ambiente Italia, un’altra  trasmissione di lunga tradizione che è stato necessario  ripensare dopo una consistente riduzione degli orari e del budget. 
Non spetta a me giudicare i risultati.  Posso solo dire che i riconoscimenti ottenuti mi hanno aiutato a superare qualche momento difficile, quando avevo sperato che le esperienze maturate mi avrebbero permesso di arrivare  alla guida della redazione centrale, e quindi della intera informazione regionale. Mi sarebbe piaciuto misurarmi in una sfida forse impossibile: combattere l’idea distorta e purtroppo dominante di un servizio pubblico che sacrifica la qualità della informazione sull’altare di una impossibile equidistanza tra le posizioni, e eliminare alcuni dei vincoli, a volte autoimposti, che gravano su telegiornali e giornali radio sempre meno giornali e sempre più bollettini dell’esistente.

Gli amici dicono che non ce l’avrei mai fatta, e dunque va bene così. Altri sono arrivati, e portano avanti le loro idee del mondo e della professione. Io non le condivido, e dal primo di settembre non sarò più un giornalista RAI. Questo però non vuol dire che rinuncerò a dire la mia e a battermi, qui e altrove, per il giornalismo in cui credo.

Un brindisi per il Salone

Basta con i piagnistei. Come direbbe Fassino, se i grandi editori – anzi alcuni grandi editori – vogliono farsi un salone tutto loro a Milano se lo facciano. Vedremo che cosa ne verrà fuori.
Qui a Torino pensiamo ai fatti nostri, e cioè al salone che metteremo in piedi con chi vorrà starci, sperando che riesca un po’ meglio di quello ingloriosamente defunto pochi giorni fa. Perché il voltafaccia dei grandi editori è soltanto una delle cause di un fallimento annunciato da anni di mugugni, liti, errori di gestione e inchieste giudiziarie. La prima, e la più importante, è l’ambiguità  di una formula che non è mai riuscita a trovare un vero equilibrio tra gli aspetti commerciali e quelli culturali, e ha sempre privilegiato i primi.  E non è da trascurare neppure la tristezza dei luoghi, quei padiglioni del Lingotto privi di aria condizionata, ammorbati da calori animali e effluvi di paninoteche, impraticabili per le affollate comparsate degli intellettuali della tv,  assordanti per gli schiamazzi di infelici e totalmente disinteressate scolaresche.
Difficile comunque non andarci, al salone. Ogni anno ti dicevi che saresti rimasto a casa,  ma un dibattito, una presenza, una curiosità che ti costringevano a salire sulla metropolitana – quella sì comodissima – li trovavi sempre. Nonostante tutto.
Sono proprio quei dibattiti, quelle presenze e quelle curiosità che il nuovo salone di Torino dovrebbe privilegiare. Non al Lingotto, non per soli cinque giorni, e non necessariamente in un unico luogo. 
Torino è bella, ricca di monumenti, spazi espositivi, ritrovi. Portiamo gli editori rimasti, che tra l’altro, a giudicare dalle reazioni di questi giorni al diktat dei presunti grandi, sono anche i più innovativi, in mezzo alla gente. Invitiamo gli autori più interessanti, italiani e stranieri, e portiamo anche loro tra la gente, magari nelle sale di un  museo o in un parco. Guardiamo con maggiore interesse ai protagonisti della rivoluzione digitale – non ha senso demonizzare Amazon –   e a quello che accade nel resto del mondo.  Cerchiamo i personaggi giusti, che autori ancora non sono, ma potrebbero diventarlo, e mettiamoli in contatto con gli editori, gli organizzatori culturali, il circuito dei festival, la scienza, l’industria. Guardiamo alle università, che per quanto sinistrate dai tagli saranno sempre meglio del consiglio d’amministrazione della Mondazzoli.
Abbiamo speso milioni di euro per affittare una ex fabbrica rifiutata dai suoi proprietari e finita nelle mani di affaristi senza scrupoli, possiamo risparmiarli e spenderne una parte  per coinvolgere nel lavoro di ideazione,  oltre al benemerito personale della fondazione per il libro, le tante istituzioni e i centri culturali che operano in città.  Non si tratta di partire da zero. Si tratta di usare il cervello, che in questi ultimi anni di spasmodica attenzione alle ragioni di bilancio si è un po\’ arrugginito.
Dunque brindiamo al salone che verrà, come ha proposto una piccola libreria di Borgo Po, L’Ibrida Bottega, ai suoi affezionati clienti.

\”Brindiamo: il supermercato del libro se ne va. Basta code chilometriche, biglietti d\’ingresso a 12 euro, numeri gonfiati, Cracco e Parodi a fare le star, Mediaword a fare da sponsor, confusione e gigantismo. Va a Milano, anzi a Rho (la magnifica Rho…), perché la Mondazzoli così vuole e cosi farà. E Dio sia lodato, perché è l\’occasione di fare piazza pulita e ricominciare con una proposta di qualità, dove si potrà ridare dignità al \”core business\”:   la bella lettura. E la strada l\’ha già indicata uno dei pochi visionari davvero tali, Carlin Petrini, che farà il suo Salone del gusto nel cuore della città, tra la gente. Se Comune e Regione riusciranno davvero a dialogare, se verranno coinvolte le figure centrali, come gli editori e gli autori di qualità, bibliotecari e insegnanti, librerie indipendenti,  giovani  scrittori e giovani attori, insomma se davvero ci sarà la volontà allora si potrà ricreare un modello unico: la Città del Libro. E voglio proprio vedere se Camilleri,  o chi per lui, preferirà fare una presentazione in una sala al neon del padiglione di Rho o con lo sfondo di Palazzo Madama. Quindi non disperiamoci, riprendiamo a creare perché di questo siamo capaci\”.

In memoria di un amico

Gianfranco Bianco non c’e’ più. Ha combattuto la sua battaglia contro la malattia con lo stessa forza di volontà che metteva in tutto quello che faceva, nella vita e nel lavoro. E non ha perso, perché ha lasciato a tutti noi, amici e colleghi, il ricordo di una persona speciale e di un vero giornalista.
Sono passati molti anni da quando ci siamo incontrati nella redazione del telegiornale del Piemonte, allora guidata da Federico Scianò.  Eravamo i più giovani, e fummo affidati alle cure di Leoni, inflessibile capo della radio. Ma i gazzettini ci andavano stretti, volevamo la televisione, e la facevamo nei ritagli di tempo, rubando spazi ai colleghi più anziani, sempre disponibili a partire per qualunque destinazione, senza badare agli orari e ai turni da saltare, senza mai prendere ferie.  
Insieme siamo passati dalla radio alla televisione, insieme siamo arrivati alla conduzione, che allora ci sembrava così importante. Ma soltanto lui è diventato il volto del TG, perché aveva qualcosa in più, quel contagioso entusiasmo che va oltre la tecnica, e non si può fingere. Così come non si può fingere la dedizione assoluta nei confronti del pubblico che traspariva da ogni servizio di Gianfranco, dai collegamenti in diretta che dosavano sapientemente notizie e sentimenti, dagli speciali sempre vivaci, ma preparati con grandissima tecnica e attenzione al dettaglio. 
Un amore ricambiato, come può testimoniare chiunque lo abbia accompagnato sul campo, e abbia visto come veniva accolto dalla gente, che lo sentiva amico, e vedeva in lui il simbolo di una RAI vicina ai problemi del territorio. 

I tempi cambiano, e non sta a noi vecchi dire se in meglio o in peggio. Di una cosa però sono sicuro. Gli strumenti  possono essere diversi, ma sono la curiosità e la voglia di raccontare che fanno del giornalismo il mestiere più bello del mondo. E a  Gianfranco non mancavano. 

Ballottaggi in salsa social

In una delle sue ultime interviste Umberto Eco disse che i social avevano dato diritto di parola a legioni di imbecilli. Aveva ragione. Ma si era dimenticato di spiegare che le legioni di imbecilli c’erano già prima, ci sono e ci saranno sempre. Anche gli imbecilli hanno diritto di esistere e di votare. L’unica differenza è che prima tacevano, ed era più facile far finta che non ci fossero. 
La  campagna elettorale sembra fatta apposta per moltiplicare il tasso di imbecillità. I social sono diventati un campo di battaglia, dove i candidati e i loro sostenitori danno il peggio. Si scopre quanto Tizio sia da sempre innamorato della sua città, quanto Caio voglia impegnare tutto se stesso per risolverne piccoli e grandi problemi, quanto Sempronio sia disponibile a sacrificarsi per il bene comune. E naturalmente si spiega quanto siano nefaste le ricette degli altri, che nel migliore dei casi sono inesperti e inadatti ad amministrare, nel peggiore dei veri farabutti.  I colpi bassi non si contano, dalle foto non riuscite di candidati già in partenza poco fotogenici ai documenti che provano inoppugnabilmente quanto quegli altri predichino bene e razzolino male, senza dimenticare i video recuperati dagli archivi per inchiodare gli avversari alle loro contraddizioni o alla loro scarsa lungimiranza politica. Poi, se tutto ciò non bastasse, arrivano le mozioni degli affetti. Come può uno come te, con la sua storia, non votare il candidato X ? A favore del candidato Y si sono espressi Z e W. Non vorrai mica mescolarti a gentaglia di quella risma? E’ vero, quello lì  è un cretino, ma non ci sono alternative. E via argomentando.
Mancano dieci giorni ai ballottaggi e non se ne può più, anche perché non si capisce l’utilità del bombardamento. Fior di studi dimostrano che i social non fanno cambiare le opinioni, ma rafforzano quelle che già si hanno. Un po’ perché si tende a interloquire con persone affini, molto perché l’obiettivo primario di chi posta e twitta è quello di esprimere se stesso e le sue idee, giuste o sbagliate che siano.
Sui social non si dialoga, ci si confronta. E poiché le cerchie degli amici virtuali sono in genere molto più larghe delle cerchie degli amici veri, la probabilità di incontrare un imbecille – e naturalmente quella speculare e altrettanto legittima di essere considerato tale – cresce in modo esponenziale. 

Non c’e’ rimedio, purtroppo. Ne sono perfettamente consapevole mentre mi arruolo nelle legioni di  Umberto Eco postando questa riflessione. Però vi avverto. Ancora uno spot  promozionale di un aspirante sindaco all’apertura di un video di Youtube e nel segreto dell’urna non risponderò delle mie azioni.