Detto questo – e dopo aver ribadito che le sentenze si rispettano – chiunque guardi alle poco edificanti cronache di questi anni dovrebbe avere il coraggio di ammettere che le manchevolezze dei molti parlamenti e dei molti governi che si sono succeduti non sono un motivo sufficiente per santificare una magistratura che ha avuto nelle sue file, insieme a persone straordinarie come Falcone e Borsellino, anche qualche lestofante e molti indifferenti. Se ne parla poco, soprattutto a sinistra, ma oggi perfino i tanti meriti del tribunale di Milano nella battaglia per ristabilire in Italia una parvenza di stato di diritto dopo l\’arrembaggio berlusconiano sono un po’ offuscati dalle beghe di potere e dai contrasti tra gli uffici. E se è vero che Edmondo Bruti Liberati non è Francesco Saverio Borrelli, è anche vero che cercare isole felici in una società in crisi è un esercizio difficile e nella maggior parte dei casi vano.
Vuoto pneumatico

Ignoranti e fieri di esserlo

Le mamme di Fiumicino, con il loro zoppicante italiano e l’incapacità di provare vergogna, sono tutti noi. Ignoranti e fieri di esserlo, chiusi nelle nostre convinzioni maturate guardando ore e ore di pessima televisione, impermeabili al resto del mondo, che suscita soltanto fastidio e sospetto. Così siamo, e così, purtroppo, vogliamo continuare a essere. Gli anni di Berlusconi hanno sdoganato modi di pensare e comportamenti che in altri tempi sarebbero stati mitigati da un residuo di pudore. Gli anni che verranno, con il cacciaballe che aspira a prenderne il posto, non promettono niente di meglio.
Settanta anni fa
Settanta anni fa, in via Cibrario a Torino, vennero fucilati per rappresaglia nove partigiani. I loro nomi: Osvaldo Alasonatti, Giusepe Casana, Ciro Castellaneta, Guido Di Costanzo, Giovanni Battista Gardoncini, Vittorio Marangoni, Ermanno Scaglia, e due maquis francesi non identificati. Ho raccontato la storia di uno di loro, mio nonno, in altri post di questo blog. Qui dico soltanto di essere commosso per il ricordo che l\’ANPI e la città hanno voluto organizzare. E per i tanti amici che li hanno ricordati insieme a me, ma non hanno potuto essere presenti alla cerimonia, ecco il video girato da mia figlia Sara. Un grazie particolare a Maria Grazia Sestero per aver reso possibile questa giornata.
Obiezione di coscienza
Ammettiamolo. In questo mondo impazzito ci sono cose più serie di cui occuparsi e preoccuparsi. Però faccio il giornalista, e continuo a pensare che le sorti del nostro mestiere siano di qualche interesse non soltanto per noi, ma anche per tutti gli altri, perché non esiste democrazia senza una informazione di qualità, distinta dal bombardamento di marchette variamente dissimulate cui siamo quotidianamente sottoposti.
I giornalisti dovrebbero essere i primi a preoccuparsi della confusione tra informazione e comunicazione che regna sovrana in rete, dove tutti possono dire tutto e il contrario di tutto, e anche nella carta stampata, nelle radio e nelle televisioni, dove qualche regola, almeno in teoria, esiste. Dovrebbero farlo, se non per spirito civico, almeno per difendere le proprie prerogative e la pagnotta: negli ultimi anni il crollo parallelo del prestigio e delle retribuzioni della categoria ha dimostrato che non servono professionisti lautamente pagati per copiare i comunicati stampa, reggere il microfono del potente di turno, e ripetere a pappagallo le dubbie verità del pensiero unico che vuole ridisegnare la società per metterla al servizio del mercato globale.
Invece l’ordine del giornalisti, l’organismo che raccoglie e rappresenta tutti i giornalisti italiani, non sembra particolarmente preoccupato. E’ un pachiderma appesantito dagli anni e da una legge che consente l’accesso a chiunque abbia scritto una breve sul più infimo dei bollettini, o anche semplicemente maneggi qualche documento vagamente assimilabile a una notizia. Fecero storia i solerti impiegati di un importante ente pubblico piemontese che per il solo fatto di ritagliare i giornali della rassegna stampa furono mandati in massa a sostenere l’esame professionale, e da un giorno all’altro diventarono colleghi.
Tra professionisti e pubblicisti gli iscritti all’ordine sono oltre 110 mila, uno ogni 550 italiani, e basterebbe la cifra per capire che qualcosa non va. Se poi consideriamo che meno della metà degli iscritti ha il requisito minimo di una posizione aperta con la cassa previdenziale di categoria, appare evidente la difficoltà di conciliare gli interessi di chi davvero vive di giornalismo con quelli, legittimi ma diversi, di chi nella vita fa tutt’altro. Aggiungiamo a tutto questo il folle meccanismo elettorale che nel corso degli anni ha fatto crescere la rappresentanza dei secondi negli organismi dirigenti, e il piatto è servito.
Un ordine in queste condizioni non poteva che essere preso d’assalto da arrivisti, pensionati frustrati e qualche avventuriero. Incapace di agire perché paralizzato dalle contraddizioni, ha dedicato tutte le sue energie a conservare se stesso e i suoi privilegi, resistendo con camaleontica abilità a ogni tentativo di cambiare le cose. Inutile da sempre, grazie a una leggina varata da un precedente governo è diventato negli ultimi tempi anche molesto, perché non si limita a riscuotere da ogni iscritto la tassa annuale, ma pretende anche di imporgli la formazione obbligatoria.
Sulla carta non sarebbe così sbagliato. Altre categorie, come i medici, già lo fanno, sia pure con discutibili modalità. Basta una generosa casa farmaceutica disponibile ad organizzare un seminario tutto pagato in qualche ridente e costosa località turistica e il medico di turno si ritrova formato e abbronzato il giusto.
Abbronzature a parte, studiare fa bene a tutti, a qualunque età. Ma un giornalista lavora con le notizie. Prima di scrivere, parlare o riprendere con la telecamera deve essere in grado di distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è. Deve sapere andare oltre le apparenze e per farlo deve conoscere la realtà e anticipare le tendenze in atto nella società. In altre parole, non si può essere giornalisti se non si capisce l\’importanza dello studio, di un processo di formazione continua che non può essere imposto per legge, ma fa parte integrante del modo di lavorare di ogni professionista degno di questo nome. Che cosa altro era il rito della lettura dei giornali la mattina appena entrati in redazione? Che cosa altro è oggi l\’uso della rete, che presuppone se non altro una buona conoscenza dell\’inglese? Un giornalista ignorante, per come la vedo io, non è un giornalista, ma un truffatore. E non sarà la formazione obbligatoria pensata dai nostri burocrati a migliorarlo.
Anche sui corsi, poi, ci sarebbe molto da discutere. Alcuni ordini regionali li hanno organizzati gratuitamente, in altre regioni si pagano. Variegati i temi, dalla deontologia al corretto uso di internet passando per la più bieca convegnistica. Complesso il meccanismo di calcolo dei crediti che ogni iscritto dovrebbe accumulare nel corso di tre anni. Quasi sempre oscuri i criteri delle scelte, e questo, insieme alla presenza tra i docenti dei soliti noti, rende lecito più di un sospetto.
Consola però pensare che fino a questo momento la partecipazione dei colleghi sia quasi nulla: attorno al 10% a livello nazionale, con punte fino al 25% nelle regioni più virtuose. Verrebbe da dire: avanti così che è la volta buona. L’obiezione di coscienza è stata usata per cause ben più importanti, e con rischi molto grandi per chi la praticava. Possiamo applicarla anche in questa nostra piccola e un po’ ridicola vicenda. Fino a questo momento, per quello che ne so, non sono neppure state definite le sanzioni per gli inadempienti.
Cominciamo affossando la formazione e chi l’ha voluta. Potremmo prenderci gusto e affossare anche un ordine che non ha ragione di esistere, e infatti non esiste nella maggior parte dei paesi del mondo.
La bordata di De Bortoli
Sulla legge elettorale nonostante gli accorati appelli della ministra Boschi, l’intesa è ancora lontana, e forse – viste le premesse – è meglio così.
Apparentemente, l’unico progetto che procede senza intoppi, ammesso e non concesso che lo si possa definire tale, è il patto del Nazareno che Renzi ha stretto a suo tempo con Silvio Berlusconi. Era stato presentato come una scelta obbligata sulla strada delle riforme, viste le chiusure suicide di Beppe Grillo e della sua corte di miracolati sull\’argomento. Ma contiene anche altro, che nessuno, a parte gli interessati, conosce nei dettagli. E quel poco che si sa non preoccupa soltanto Ferruccio De Bortoli.
Cecità interessata

Prendiamo il recente invito del governatore della banca centrale europea Draghi ai governi della comunità, e in particolare alla traballante Italia di Renzi, perché rinuncino alla loro sovranità in materia di riforme strutturali. Gli obiettivi ritenuti necessari per competere sul mercato mondiale non sono sicuramente indolori: l’abbattimento del costo del lavoro, lo smantellamento del welfare, la privatizzazione di quel poco che ancora resta da privatizzare dopo le ondate di dismissioni degli anni Novanta.
La richiesta di Draghi è l’ultima di una lunga serie: sempre più spesso negli ultimi anni le istituzioni economiche sovranazionali hanno occupato gli spazi della politica. Attraverso la banca mondiale, il fondo monetario internazionale e le organizzazioni collegate, tanto potenti quanto ignote al cittadino medio, il mercato si è rafforzato e ha esercitato un potere che non tollera né confini né regole perché presuppone una crescita indiscriminata della produzione: in un mondo che venera il Prodotto Interno Lordo ciò che importa è produrre e consumare, non importa che cosa. E il profitto diventa l’unico obiettivo degno di essere perseguito, perché rappresenta la misura dell’efficienza e dunque viene ritenuto vantaggioso per la collettività. Tutto il resto, dai diritti dei cittadini al loro benessere, dalla tutela dell’ambiente alla promozione della cultura, può essere sacrificato, e di fatto lo è.
In Italia abbiamo fantasiosamente battezzato la stagione dei tagli “spending review”, e l’abbiamo presentata come una azione di riduzione dello spreco, salvo poi scoprire che gli sprechi sono rimasti, mentre sono spariti posti di lavoro e servizi essenziali per le fasce più deboli della popolazione. Siamo peraltro in buona compagnia. L’attacco al welfare riguarda anche paesi con storie molto diverse dalla nostra. E poiché le cose non accadono per caso, c’è da chiedersi a chi giovi una situazione di questo genere.
Molti indicatori dimostrano che nei paesi avanzati la crisi ha messo in moto un imponente fenomeno di redistribuzione del reddito a favore di fasce molto ristrette della popolazione abbiente, guarda caso quelle stesse che in tutti i paesi chiedono a gran voce riforme capaci di rilanciare l’economia. La forza di questi paladini del libero mercato non è soltanto finanziaria. Nel corso degli anni hanno cercato di realizzare quella che Gramsci a suo tempo definì una “egemonia culturale”. La loro visione del mondo e le loro ricette per un futuro neoliberista, dove soltanto i meritevoli saranno premiati, sono diventate parte del comune sentire, e si stanno diffondendo anche tra coloro che dovrebbero essere in prima fila per combatterle perché contrarie ai propri interessi. Non è detto che si consolidino, ma per sconfiggerle servirebbe almeno la consapevolezza che c’è una battaglia da combattere.
Il cacciaballe
Diritto di voto
Alla fine si vota sempre il meno peggio. Ma questa volta è davvero difficile capire chi è.
Alla destra, nelle svariate forme che ha assunto dopo l’implosione di Berlusconi, non sono interessato.
Renzi è intelligente e ha dimostrato di capire gli umori del suo elettorato, però governa con Alfano e ha alle spalle un partito di mediocri che non lo amano, tenuti insieme dal collante del potere. Un voto in bianco, a gente che in campo economico fa il tifo per Marchionne, in politica estera ha scelto la strada della realpolitik, e sul tema dei diritti guarda con un po\’ di sospetto perfino alle aperture di papa Francesco, non lo voglio dare.
In un primo momento i principi ispiratori della lista Tsipras mi avevano attirato. Poi ho assistito con angoscia al balletto delle sigle e dei partitini che si sono appropriati dell’idea condizionando la scelta dei candidati, e sperano in questo modo di recuperare una credibilità politica persa con decenni di sconfitte. E mi ha molto infastidito lo sventolio delle bandiere No Tav che ha accompagnato tutte le iniziative della lista.
Resterebbe Grillo. Sento confusamente che votarlo sarebbe il modo più efficace per esprimere il mio disagio nei confronti di una politica che da troppo tempo non mi rappresenta. Però non mi piace lui, non mi piace il suo amico Casaleggio, e non mi piacciono i grillini, con la loro rabbia alimentata dall’ingenuità e dal fanatismo.
Fino a poche ore fa, in considerazione del fatto che si tratta di elezioni europee, e che in Europa il parlamento conta poco perché le decisioni importanti vengono prese dalla commissione formata dai rappresentanti degli stati membri, dal consiglio e dalla banca centrale europea, avrei detto che il meno peggio, tutto sommato, era Grillo. Una sua vittoria – pensavo – sarebbe stata una bella scossa per un sistema che nessuno vuole cambiare davvero.
Poi mi sono ricordato di “Diritto di voto”, un racconto scritto nel 1955 da Isaac Asimov. Il grande maestro della fantascienza immaginava che negli Stati Uniti del 2008 le tecniche demoscopiche fossero diventate così sofisticate da consentire di eleggere il nuovo presidente consultando un solo cittadino, scelto e interrogato da un supercomputer. Il prescelto di quell’anno, il commesso Norman Muller, inizialmente scettico, dopo aver risposto alle domande della macchina, sentiva di aver fatto il suo dovere e se ne andava contento a godersi la fama che si era conquistato.
Bene. Io adesso mi sento Norman Muller. Penso al mio voto di domani come se fosse quello decisivo, quello capace di far vincere Grillo o Renzi. E non sono così sicuro di volere che Grillo vinca queste elezioni. Spero che prenda tanti voti. Spero che questi voti servano per costringere gli altri a cambiare, e magari convincano alcuni dei peggiori a farsi definitivamente da parte. Ma il mio non lo avrà, e non lo avrà neppure Renzi.
E allora? Non resta che Tsipras, con la scomoda compagnia dei No Tav. Lo so. Se davvero il mio voto di domani fosse quello decisivo metterei una pietra sopra alla mia speranza di andare velocemente a Parigi in treno. Ma è consolante sapere che la realtà, complice anche la soglia di sbarramento al quattro per cento, è ben diversa. Dunque Tsipras, con il naso turato.
P.S.
Quasi dimenticavo che in Piemonte si vota anche per la regione. Molti pensano che Chiamparino vincerà facilmente. Io non ne sono così convinto, ed è per questo che lo voterò, cercando di dimenticare alcuni lestofanti che lo appoggiano.
Il futuro della RAI
Questa storia dei 150 milioni sottratti al bilancio RAI con la spending review è sicuramente preoccupante, ma di per sé non sarebbe tale da causare il tracollo dell’azienda. In passato si è visto di peggio: ricordo ad esempio il mancato trasferimento dei fondi del canone – tutti, non soltanto 150 milioni – utilizzato da un governo appena insediato per liquidare un consiglio d’amministrazione sgradito.
Il taglio previsto dal decreto, però, è accompagnato da un paio di indicazioni operative per i vertici aziendali: se proprio non sapete dove trovare i soldi – dice in sostanza il governo – vi dò una mano modificando la legge Gasparri per consentirvi di chiudere un po’ di inutili sedi regionali e di mettere sul mercato le vostre infrastrutture per il trasferimento dei segnali, appetite anche dagli operatori telefonici. Per chi ha la memoria corta, la legge Gasparri, arrivata nel 2004 per mettere ordine nel sistema radiotelevisivo italiano, era pensata all’unico scopo di sancire il duopolio di fatto RAI-Mediaset. Sembra perciò chiaro che la decisione del governo Renzi sia parte di una strategia più complessa che guarda al 2016, quando scadrà il contratto che assegna alla RAI la gestione del servizio pubblico radiotelevisivo, e sarà necessario ridiscuterlo.
Quale RAI si presenterà all’appuntamento? Senza i ponti di trasmissione e le sedi regionali – e forse senza l’informazione regionale che in quelle sedi viene prodotta – sarà sicuramente più simile agli altri operatori che operano o aspirano a operare sul mercato radiotelevisivo. Privata tra i privati, perché mai dovrebbe essere certa della riconferma? E se anche l’ottenesse, perché mai quel servizio pubblico dovrebbe mantenere le stesse caratteristiche di quello attuale? Per dirne una, perché non scorporare e assegnare ad altri l’informazione regionale? E’ vero che piace e sistematicamente regala a RAI3 gli ascolti più alti della giornata, ma sull’altro piatto della bilancia ci sono tante piccole televisioni locali che per sopravvivere avrebbero disperatamente bisogno di un aiutino pubblico.
Ai dipendenti RAI, me compreso, tutto questo non fa ovviamente piacere. Si sarebbe tentati di dire “peggio per noi”, visto che cantiamo da troppi anni le virtù delle privatizzazioni altrui per essere credibili quando difendiamo le ragioni del nostro servizio pubblico. Ma queste ragioni hanno una loro forza, che va al di là delle persone che le sostengono.
Piace alla gente il ministro Delrio quando dice che la RAI ha avuto molto, ed è ora che restituisca qualcosa, e piace il presidente del consiglio Renzi mentre distrugge un inetto conduttore miracolato dalla politica, e raccoglie applausi universali annunciando a tutta l’azienda che la pacchia sta per finire. Chi piace, però, non ha sempre e comunque ragione. Se, per farla finita con la pacchia di alcuni, si getta via anche l’idea che possa esistere una televisione svincolata dai poteri forti, in grado dar voce a chi di solito non ce l’ha, e non disposta a sacrificare la qualità alle supposte richieste del pubblico, allora non ci siamo.
E’ stata tutto questo il servizio pubblico RAI? Purtroppo soltanto in minima parte, e non ci sono segnali che in questa ultima stagione le cose stiano davvero cambiando. In compenso, la singolare assenza di reazioni degli attuali vertici aziendali alle richieste del governo Renzi autorizza il sospetto che esse non siano giunte né inattese, né sgradite, e che anzi potrebbero essere funzionali a un disegno che per il momento non è dato conoscere. Restiamo dunque in attesa del nuovo piano industriale che i piani alti di viale Mazzini starebbero preparando. Come ci insegnano gli ultimi anni di relazioni industriali in questo paese, in una situazione di emergenza, vera o presunta che sia, i manager possono prendere decisioni che in condizioni normali sarebbero impossibili. Resta però da vedere quali, e nell’interesse di chi.